sabato 18 gennaio 2014

Open Source nella Pubblica Amministrazione, i lavori proseguono (a rilento)



Ci eravano lasciati con il Decreto Sviluppo (l. 134/2012 art. 22) con il quale per la prima l'open source trovava il meritato riconoscimento nel Codice dell'Amministrazione Digitale.
Finalizzato all'attuazione dell'agognata spending review si stabiliva che:

"Le pubbliche amministrazioni acquisiscono programmi informatici o parti di essi nel rispetto dei princìpi di economicità e di efficienza, tutela degli investimenti, riuso e neutralità tecnologica, a seguito di una valutazione comparativa di tipo tecnico ed economico tra le seguenti soluzioni disponibili sul mercato:
a) software sviluppato per conto della pubblica amministrazione;
b) riutilizzo di software o parti di esso sviluppati per conto della pubblica amministrazione;
c) software libero o a codice sorgente aperto;
d) software fruibile in modalità cloud computing;
e) software di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d'uso;
f) software combinazione delle precedenti soluzioni."
art. 68 c. 1 Cod. Amministrazione Digitale


In parole semplici, la norma impone che prima di procedere all'acquisto di nuovi applicativi, la Pubblica Amministrazione  avrebbe dovuto preliminarmente valutare l'esistenza di soluzioni a buon mercato, ivi compreso il ricorso al software libero.
Dopo l'iniziale entusiasmo da parte della comunità open source, sappiamo che in realtà poco o nulla è stato fatto in tal senso.

Dopo circa un anno di lavori e di confronto con la comunità informatica, nella quale erano presenti, tra gli altri, rappresentanze di The Document Foundation e Free Software Foundation Europe, l'Agenzia per l'Italia Digitale con l'emanazione della Circolare n. 63/2013, ha fornito un importante strumento operativo attraverso una dettagliata interpretazione normativa  la soluzione a casi pratici.

La Circolare, che si basa pesantemente sull'esperienza di Monaco di Baviera, fa propri, applicandoli alla PA, numerosi concetti attinti direttamente dal patrimonio della comunità open source.
Si parla così di libero scambio di informazioni al fine di favorire l'interoperabilità tra le varie pubbliche amministrazioni, della prevenzione del c.d. lock-in (fenomeno che si verifica quando l'utente si trova "intrappolato" in un sistema di soluzioni, senza la possibilità di passare ad altre benché più convenienti, es. i vecchi formati di MS Office), ma anche di una maggiore consapevolezza nelle future soluzioni attraverso l'ingresso di competenze informatiche specifiche, della cui carenza notoriamente risente la PA.
Un chiaro riferimento è anche al "riuso" del software da una PA all'altra, che dovrebbe essere favorito attraverso l'istituzione e il potenziamento di apposite piattaforme di scambio e dell'adozione di formati standard e aperti.

La Circolare tuttavia non impone, come invece potrebbe apparire a una lettura superficiale, il radicale passaggio all'open source.
Anzitutto, la scelta sulle grandi infrastrutture e sul tipo di hardware, non rientrano nell'ambito applicativo della norma. Può così accadere che l'hardware non supportato o mal supportato da una soluzione open, sia di per sé motivo sufficiente per escluderla dal campo delle scelte. Le scelte politiche, insomma, non sono risultano essere mai vincolate.
Rimangono fuori le soluzioni basate sul cloud e sulla virtualizzazione.
La norma entra invece in gioco quando la PA o vuole estendere un proprio servizio a un numero maggiore di utenza, oppure deve passare ad una versione successiva del software acquistando una nuova licenza. In tali casi scatterebbe l'obbligo di valutare comparativamente l'esistenza di soluzioni open source o di riutilizzare altro sofware già esistente e la cui disponibilità può essere ottenuta senza oneri aggiuntivi.

Oggetto della comparazione, continua la Circolare, deve essere non soltanto la libera disponibilità di un software, ma anche elementi accessori, quali il costo di tempo e di risorse per la migrazione (nella sua totalità) e l'eventuale formazione del personale, oltre ovviamente la capacità di essere integralmente rispondenti alle esigenze istituzionali.
Così, non sempre la scelta potrà cadere su una soluzione open, per quanto più performante, in quanto contingenze di vario tipo finirebbero col renderla comunque più svantaggiosa.

A conclusione di questa breve illustrazione riteniamo che la Circolare sia giunta a soluzioni tutto sommato accettabili se consideriamo la posizione di partenza. L'eccessiva durata della procedura, quasi 1 anno e mezzo dalla epocale scelta di abbracciare l'open source, se da un lato ha finito col produrre risultati a tratti fin troppo ovvi, dall'altro si è rivelata inutile per tutte quelle numerose amministrazioni locali (la regione Umbria ultima in ordine di tempo) che già da tempo hanno adottato soluzioni free per l'espletamento dei loro compiuti istituzionali con notevoli risvolti sul piano della finanza pubblica.
Ci auguriamo, pertanto, che prima ancora del sotfware venga un ancor più auspicato cambio di mentalità.

2 commenti:

  1. Ma a parte il comune di Padova ci sono notizie di altri enti pubblici che sono passati al s.o. open source?

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  2. Ciao Paolo. Guarda sono talmente tanti che è inutile farti un elenco qui. Su Google cerca "comune open source". Saluti.

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